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08 luglio 2014

(28) L’ABBACCHIO ALLUPETTATO

(28)
07/07/14
 

    Fare la spesa al supermercato e sentire un simpatico romeo dirti quotidianamente : “aho è arrivato don buro” personalmente mi fa sorridere considerando le sue guance rosse che denotano una generazionale frequentazione dei campi. Gli meni certi fendenti che farebbero zittire per sempre qualsiasi altra persona ma non un “rugantino allupettato”, sempre pronto a risorgere dal suo nulla. L’ho minacciato, per celia, “Alessà te parto de poesia” e lui nulla, e allora l’ho scritta. Questi sono brutti tempi per un laziale vero. Vedere la propria (?) squadra prigioniera del drago è brutto ma vedere gente che pensavi laziale pietire al drago una squadra più forte è ancora più devastante. Ti fa comprendere quello che era da sempre solo un tuo sospetto. Parecchi “giallorossi dentro” si sono solo “pittati de blu”.

     Questa poesia la dedico agli Alessandro della Romea, quelli originali, e a quelli che, non capendo come sono fatti dentro, hanno pensato bene di violare, travisare quel sogno, quell’idea di sport universale, che neanche se ci metti tutta una vita riusciranno a comprendere. Una squadra può anche morire nel tuo cuore ma le idee che l’hanno vista nascere non moriranno mai.
                                           

                                                         Introduzione


     Questa è la storia strana de ‘sta città, de gente de fora che vole commannà, e de ruoli strani invertiti per lo più da chi de mansioni nun ce ragiona su. Pe’ cui accade che er Romeo porchettaro è messo a venne er pesce e alla pescatrice da sempre mai je riesce.

  

L’abbacchio allupettato

 

Questa è a storia de Romeo*,

abbacchio allupettato, pellegrino d’artri tempi,

che dopo esse nato in uno de quei sperduti  campi,

venuto a Roma incontra ‘na lupa bona e de città

che mai e poi mai s’o volle magnà.

 

Passò tanto de quer tempo co’ quell’anima bona

che se convinse, visto che stava a Roma,

de’esse un lupacchiotto co’ tutti l’attributi,

co’ i canini come zanne puntuti.

 

E divenne cosi prepotente, coatto de città,

che co’ tutti l’altri voleva sempre  litigà.

Un giorno  passeggiando in aperta campagna

incontrò ‘na lupa e ‘n’aquila de montagna.

 

I due co’ ‘na fame, che v’o dico a fa,

cercaveno quarcosa bono da magnà.

L’abbacchiotto quanno li vide arivà da lontano

sur ponte se mise sghembo, pe’ nun fa passà nissuno.

 

“Come è vero che so un lupo qui nun se passa

e se insistete de voi due ne faccio ‘n’unica carcassa”.

L’aquila che su n’arbero s’era assisa con fare reale

diede no sguardo ar lupo vero che sbavava gnente male.

 

Fu cosi che l’abbacchio prepotente e allupettato,

quello che voleva comannà su tutto er vicinato,

er villico che l’artro tacciava d’esse burino

fini  a scottadito e mannato giù  solo co’ ‘n po’ de vino.

 

Questo è ‘a fine che a Roma fanno quelli là

gente de campagna che vorrebbe comannà,

che de Romolo e Remo se sentono l’eredi universali

e so’ solo villici de campagna scontati e puro un po’ banali.

 

Questo succede in tutta Roma ma de più

so storie che accadeno solo a  Emme più

dove Alessando er porchettaro venne pesce

e Iva ‘a pescatrice tra ‘i salumi ‘a mannano a pasce.

 

                       Decimo

 

 

*Romeo non perché innamorato di Giulietta ma per essere pellegrino figlio di pellegrini, a Roma     

  sempre detti Romei.

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